Enrichetta Cesarale
Teologa

Ma-Donne
I fragili lavori dell’artista Raffaele Ariante rappresentano un viaggio tra volti di donne, ci riportano, attraverso Maria, a muoverci, inconsapevolmente, nel complesso mondo di una interiorità segnata da sguardi, da riconoscimenti, da timori, da ferite, da dolori e da lievità. Come scriveva Isidoro di Siviglia: «La “faccia” (facies) è l’atteggiamento naturale, immutabile del viso, mentre il “volto” (vultus) varia e muta a seconda dei momenti e delle circostanze; e si presenta ora lieto, ora triste in sintonia con lo stato d’animo» (De differentiis verborum 1,589 = PL 83,68). Il volto, ovviamente, è di più. Nella lingua ebraica, viene utilizzato il termine panim per parlare del volto ed esso non ricorre mai al singolare, viene considerato, infatti, un plurale tantum, ovvero un “singolare di pluralità”, “volto di volti” che richiama la persona intera ed evoca la sua postura nelle relazioni. “Vedere il volto” o “nascondere il volto” significa accettare ed essere accolti o nascondersi alla presenza dell’altro, è insieme concessione di sé e ritrazione di sé. Sì, il volto richiede lo stupore per la persona che siamo e che abbiamo dinanzi o accanto, identità continuamente nuova e diversa, mai uguale a se stessa eppur sempre medesima, «vedibile ma, paradossalmente, mai visto esaustivamente. L’inesauribilità della sua Fonte lo esige» (M.M. Morfino, Panim, un singolarissimo plurale, 36).
Chi si avvicina al volto e alle sue rughe, ai suoi segni, alla sua irriducibile apertura deve possedere una mano lieve, consapevole di star attraversando una complessità che mai conoscerà del tutto, né, tanto meno, mai possederà. Forse è proprio questa dolorosa ma liberante incapacità a possedere l’altro che rende preziosa la fragilità della carta di Fabriano scelta da Raffaele per tratteggiare il volto di volti, Maria, e con lei la simbolica di una femminilità che chiede di esserci e di restare non posseduta. È vero, questo tempo pandemico giustifica il nostro mascherarci la faccia ma il volto continua a parlare, a mostrarsi, a chiedere, a gridare. «Luogo in cui la persona si genera a se stessa, il volto è sempre nell’atto di designare un al-di-là di se stesso. Fa breccia. L’apparire infatti ha una riserva di essere. Il volto segna una lacerazione nel tessuto del mondo che lascia presagire una trascendenza del visibile. Né riduzione alla materia, né balenio dello spirito, il volto è il dischiudersi di una manifestazione integrale» (B. Chenu, Tracce del volto, 16-17).
Le opere di Ariante, i volti di Ma-donne, si mostrano al nostro sguardo come uno spalancamento su una realtà che è, sì, sfuggente e così dilaniata, ma pur sempre specchio di un di più che resiste, di un centro che non cede, di una luce che attraversa fessure e maschere.
La ‘sommessità’ degli occhi, quasi una pesantezza del cuore che trapela, una lama di luce che attraversa ogni volto di
Ma-Donna di Ariante, si impone, crea silenzio, esige un tal incontro di sguardi da avvertirne il peso di quella luce sommessa. Ripenso alla figura di Maria, la madre di Gesù, la Donna dell’Apocalisse, il grembo della Chiesa. Una giovane donna che ha vissuto così presto – così giovane – il suo passaggio all’età adulta, al tempo delle scelte e della libertà. L’incontro che ha dato un orizzonte diverso ai suoi giorni è raccontato dai due evangelisti Luca e Matteo nella sezione denominata Vangeli dell’Infanzia, ovvero una buona notizia nella buonissima notizia dell’Incarnazione del Figlio di Dio, dove emerge la figura di Maria ed il suo dolore di donna dinanzi all’Altissimo. Gli occhi delle Ma-Donne mi riportano a quell’incontro di Nazareth, all’intimità di una relazione tra il Dio di Israele ed una fragile ragazza che ritrova, non senza paura, nell’onore di una Parola che le viene rivolta dall’Alto, la sua tremenda forza. Rallegrati, ripiena di grazia, trasformata dalla grazia, il Signore è con te! La profondità degli occhi delle fragili Ma-Donne mi ricordano, innanzitutto, questa avvenuta trasformazione operata dall’amore di Dio – pura grazia, gratuitamente dato – in lei. La gioia di Maria non equivale per nulla ad una leggerezza o facile emozione, come trapela, spesso, da molteplici opere pittoriche a noi note; è consapevolezza che si può amare come Dio ci ama. Ma l’amore è il percorso più complesso che si può compiere! Di questa complessità ne è ben conscia la Donna di Apocalisse che si ritrova a dover partorire avendo dinanzi un dragone pronto a divorare il frutto del parto. Maria, però, è la nuova Gerusalemme, come ci ricordano i volti di Ma-Donne circondate dall’Ariante da stelle o coronata di città regale, protetta dalla colomba dello Spirito. Da lei, dalla sua scelta per Dio, nasce Gesù, quel pesce – ichtus – simbolo, perché acronimo, di ‘Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore’, parte anch’esso di un volto di Ma-Donna. Volto di volti. Maria è la Donna che ha conosciuto il Sommo Bene, partorito la salvezza, affrontato la tempesta della non accoglienza delle folle e dei perbenisti, seguito il Figlio in cammino verso Gerusalemme, pianto la morte di madre, minacciata dal male e dalla sua bestialità. Volto di volti, senza maschere. La nuova Eva, il cui seme ha schiacciato la testa del serpente fino alla sua radice, ovvero ha portato la forza della logica divina di amore nelle vie buie dei progetti del male.
La bellezza, lo sappiamo, è una beatitudine data dalla sinfonia dei sensi che fanno pulsare il cuore e mettono in tensione il cielo e la terra verso una quotidianità che può respirare già del non ancora. Solo un Volto segnato da questa tensione può consegnarsi senza temere di essere posseduto.
